Sviluppo sostenibile, qualità ambientale e difesa del territorio


Da sempre il Tartufo Bianco ha trovato nel territorio di San Miniato il suo habitat ideale, non solo nei boschi, habitat congeniale, ma anche negli ambienti cosiddetti antropizzati, ossia dove si esplicava la presenza dell’uomo e del suo lavoro. In tutta la Toscana infatti la campagna, il cosiddetto “contado”, era organizzata secondo un ordinamento fondiario, originario fin dal medioevo, incentrato sulla mezzadria: un sistema di conduzione che prevedeva la suddivisione delle campagne in fattorie, a sua volta suddivise in poderi, garantendo così la presenza dell’uomo e del suo lavoro in ogni parte del territorio.
I campi avevano una lunghezza, e di conseguenza una larghezza, adeguata allo sforzo dei bovini, il cosiddetto “motore animale”, definito come “un male necessario”. La lunghezza dei campi era infatti “a respiro di bove”, ossia proporzionata allo sforzo che gli animali potevano compiere prima di dovere riprendere fiato; inoltre i campi erano coltivati principalmente in coltura promiscua, ossia con filari di viti, olivi, salici, aceri ed altre piante sul bordo; separavano i campi l’uno dall’altro le fosse nelle quali venivano raccolte le acque piovane in eccesso. Il territorio risultava pertanto suddiviso in una fitta maglia di appezzamenti di dimensioni che in pianura potevano raggiungere i 70 - 90 metri in lunghezza e 20 - 30 metri in larghezza, in collina le dimensioni dipendevano dalla pendenza ma erano comunque mediamente inferiori. E poiché la cura del podere era un aspetto che veniva valutato nell’opera del mezzadro e della sua famiglia, le fosse, i campi e tutto il podere era pulito e ben curato, compreso i boschetti cedui che fornivano legna da ardere, pali per gli attrezzi e le colture, pascolo per gli animali. Tutto questo contribuiva a dare alla campagna toscana quell’aspetto, quei caratteri di paesaggio, che ritroviamo nei quadri e nelle rappresentazioni del passato e che nell’800 hanno stregato i viaggiatori ed i cronisti stranieri che hanno definito la Toscana un giardino; un giardino che permetteva di mantenere integro l’habitat del Tartufo Bianco e di limitare frane, smottamenti, incendi e alluvioni.
Il sistema fondiario incentrato sulla mezzadria si è mantenuto fino al secondo dopoguerra, allorquando l’industrializzazione ha prodotto nelle campagne due effetti. Anzitutto l’industria emergente, nella zona soprattutto quella del cuoio e della lavorazione del pellame, ha assorbito molta forza lavoro dalle campagne che si sono di conseguenza spopolate; l’industria poi ha fornito all’agricoltore una nuova forza motrice, il trattore, con cui sostituire gli animali nella lavorazione dei campi. Ma le macchine per esplicare al meglio la propria produttività, potendo compiere uno sforzo costante e prolungato, avevano bisogno di superfici continue, senza interruzioni, e quindi fosse e colture promiscue sono state eliminate, realizzando ampie superfici accorpate specializzate. Quando le superfici non potevano essere adattate ad una simile trasformazione, i cosiddetti terreni marginali che per l’eccessiva pendenza, la conformazione, la superficie limitata o per altri fattori intrinsechi non potevano comunque essere coltivati convenientemente, venivano abbandonate e andavano incontro alla diffusione di vegetazione spontanea.
A seguito dei consistenti cambiamenti nella conduzione dell’attività agricola, il Tartufo Bianco, indicatore estremamente sensibile della qualità ambientale, ha diminuito sensibilmente la sua presenza. Infatti con la scomparsa dell’estesa affossatura lungo i campi dove si trovavano piante adatte alla micorrizzazione sono scomparsi numerosi siti tartufigeni. In qualche caso la cessazione nella coltivazione di superfici agricole ha favorito la proliferazione anche di piante non tartufigene con ulteriore diminuzione di tartufaie. La possibilità di utilizzare la trazione meccanica poi ha favorito la diffusione di pratiche agricole non idonee allo sviluppo delle micorrizze, come ad esempio le arature profonde, l’uso di certi tipi di erpice o frangizzolle, l’impiego di determinati prodotti chimici, senza dimenticarsi che l’uso di macchine sempre più grandi e potenti non solo in agricoltura, ma anche nelle opere di sistemazione idraulica e forestale, ha avuto ulteriori impatti negativi sugli habitat del tartufo.
Parallelamente alla diminuzione degli habitat del Tartufo, per gli stessi motivi sopra descritti, sono aumentati considerevolmente i rischi legati alla regimazione idraulica, favoriti anche da una sempre più estesa, in diversi casi quanto meno non oculata, utilizzazione del territorio a scopi urbani e industriali con conseguente impermeabilizzazione di superfici molto estese.
I due aspetti sono strettamente collegati perché l’habitat del tartufo attualmente si è localizzato principalmente nei diversi tipi di formazioni boschive presenti lungo i corsi d’acqua e nelle piccole valli, compreso le superfici prima coltivate ed oggi ricolonizzate dalla vegetazione spontanea. In questi siti ovviamente più alberi simbionti si trovano meglio è, ma questo non è altrettanto vero per quanto riguarda la regimazione idraulica. Infatti molto spesso le essenze arboree presenti in questi territori marginali non hanno più la manutenzione che un tempo era garantita dalla presenza capillare dell’uomo, ma sono lasciate all’incuria andando incontro a processi di degrado. Questo è causa nei periodi estivi di problemi riguardo alla sicurezza contro gli incendi in quanto rami secchi, foglie, arbusti di tutte le dimensioni e sviluppo sono facile innesco; al contrario d’inverno le ramaglie ed i residui vegetali spesso causano una diminuzione delle sezioni idrauliche e ostruzione nei punti obbligati.
La soluzione più semplice è rappresentata dall’eliminazione massiccia delle specie vegetali lungo i corsi d’acqua, in modo da non avere materiale combustibile per gli incendi e impedimento al deflusso delle acque. Per il tartufaio l’eliminazione spinta degli alberi simbionti con il tartufo non è ovviamente cosa auspicabile in quanto meno alberi significa meno tartufi.
Occorre inoltre tenere presente che per limitare il rischio di esondazioni, oltre alle indispensabili opere idrauliche di grande portata, è indispensabile anche una attenta e capillare manutenzione di tutto il territorio. Per limitare il rischio di alluvioni infatti devono essere messi in atto tre principi:
- a monte l’acqua deve essere tenuta quanto più possibile al fine di allungare il cosiddetto “tempo di corrivazione”, ossia il tempo che una goccia d’acqua impiega mediamente a raggiungere l’alveo del fiume: un tempo di corrivazione basso significa che la quantità d’acqua caduta con una pioggia raggiunge rapidamente e tutta insieme l’alveo del fiume o del torrente, con problemi legati a una spesso insufficiente capacità di smaltimento, soprattutto perché questa massa d’acqua che affluisce lo fa in concomitanza con altre masse d’acqua analogamente formatesi. Le piante che si trovano lungo i piccoli corsi d’acqua e le vallecole, fra tutte le altre, assolvono la funzione di trattenuta delle acque in modo molto efficace e quindi contribuiscono a aumentare i tempi di corrivazione. Addirittura in passato lungo i corsi d’acqua vi erano dei punti indicati come “ragnaie” e consistevano in piccoli boschetti, principalmente di pioppo, realizzati con il preciso scopo di rallentare il deflusso delle acque;
- a valle l’acqua deve defluire dall’alveo del fiume nel minor tempo possibile e pertanto in questa parte del territorio le ostruzioni devono essere limitate se non del tutto eliminate;
- quando l’eccezionalità dell’evento comunque non permette lo smaltimento delle acque si devono individuare aree nelle quali l’acqua possa esondare senza procurare danni. Per questo dopo la tracimazione dell’Arno nel 1966 furono già individuate alcune aree lungo il suo corso con questo scopo, e quando agli inizi degli Novanta per le copiose piogge il torrente Egola è tracimato allagando il centro di Ponte a Egola e la relativa zona industriale, sono state progettate e realizzate due casse di espansione a monte del centro abitato.
Ulteriori aspetti da considerare sono il mantenimento della diversità biologica e l’alimentazione delle falde freatiche: una eliminazione spinta e non selettiva delle piante lungo i corsi d’acqua porta infatti ad un generale impoverimento degli habitat naturali e delle specie vegetali ed animali presenti, con conseguente perdita del patrimonio biologico, compreso la perdita dei siti tartufigeni; il trattenimento delle acque a monte ha poi la funzione di rimpinguare le falde idriche attraverso il deflusso dell’acqua nel sottosuolo, mentre un rapido deflusso superficiale non lo permette se non in quantità ridotta.
La sempre più marcata eccezionalità dei fenomeni meteorologici dovuta ai cambiamenti climatici ovviamente aumenta le problematiche sopra esposte.
Le tematiche da valutare sono quindi molteplici e talvolta le soluzioni ideali per una sono in contrasto con un'altra. In ogni caso i primi ad essere interessati alla individuazione delle soluzioni migliori sono proprio quelli che da un ambiente integro hanno i maggiori vantaggi, ossia tartufai e cacciatori, che tra l’altro, frequentando gli ambienti silvani, sono i primi guardiani del bosco, individuando i cambiamenti del territorio in tempo reale e senza dispendi di risorse, cosa che sarebbe difficile censire per l’ente preposto.
Proprio per questa conoscenza del territorio nel caso del Tartufo Bianco è stato possibile, grazie ad un confronto fra tartufai e Amministrazione comunale, censire ed inserire fra le zone protette del piano regolatore comunale quelle a vocazione tartufigena.
Riguardo alle prospettive future, trattandosi del Tartufo Bianco, occorre sempre tenere presente un aspetto essenziale: al contrario del Tartufo nero o del Tartufo marzuolo per i quali è stato riscontrata una certa disposizione alla micorrizazione artificiale delle piante e di conseguenza una attitudine alla coltivabilità, per quanto riguarda il Tartufo Bianco questo finora ha sempre risposto negativamente ad ogni tentativo e di conseguenza alla realizzazione di tartufaie coltivate. Per questo motivo la difesa delle tartufaie naturali esistenti e il miglioramento degli ambienti in attesa di una autonoma ricolonizzazione, sono elementi imprescindibili per il mantenimento di questa risorsa sul territorio.
Diventano quindi fondamentali per il futuro la capacità di confronto fra i diversi soggetti (Amministrazioni pubbliche, Consorzi di Bonifica, associazioni di categoria, proprietari, tartufai, cacciatori e tutti gli operatori e i fruitori del territorio in generale), la qualità nella progettazione degli interventi e della pianificazione territoriale, la capacità di sintesi ed una programmazione che abbia una visione ampia e di lunga prospettiva. Certamente questo comporta un’evoluzione culturale non indifferente, occorre imparare a mettere da parte interessi e risultati contingenti e immediatamente riscontrabili e spendibili, nell’interesse di prospettive superiori e più ampie, ma è probabile che questa sia la grande sfida del futuro, che se si guarda bene lo sarebbe stata anche nel passato, ma che i tempi sempre più stretti e le pressioni sempre più forti impongono, una evoluzione che mette in discussione il nostro essere “toscanacci”, ma necessaria se non vogliamo avviarci ad essere in futuro, come li appellava Indro Montanelli, “toscanucci”.

© Riccardo Buti e Fabrizio Mandorlini - Oro Bianco. Il Tartufo di San Miniato - Fm Edizioni

La veduta aerea del territorio di San Miniato realizzata nell’estate del 1944 evidenzia come erano organizzati e ben curati gli appezzamenti di terreno nella campagna.